Lavorare al pubblico è una cosa bellissima, ogni giorno qualcosa da imparare con divertimento.
La mescita al bicchiere di uno splendido sangiovese della Rufina del 1980, mio conterraneo, le cui poche bottiglie rimaste vanno via come il fumo, è fonte di grande soddisfazione personale e talora vero spasso.
Il cliente di stasera ha l'aria perplessa, poi con tono saccente si esprime: "lo trovo leggermente ossidato, forse avete la bottiglia aperta da tempo..".
Davanti al cliente io, in pratica una sfinge. Nessun sentimento, né smorfia trapela dal mio volto. Mi sono ossidoridotta, ho soffocato l'istinto della risata fragorosa, e incassato senza tentare una risposta esplicatrice. Nessun riferimento alla bottiglia spillata da macchina e neppure ai 40 anni di età di un sangiovese che si presenta con leggera ossidazione.
Nulla, sono una tomba, un monumento funerario tra i tavoli del dehors anziché in mezzo alle piramidi. Davanti a me solo un bicchiere con del vino granato-rugginoso come le dune rosso del deserto.
Il cliente ha ragione su quella ossidazione accennata; ma la domanda dovrebbe sorgere spontanea: sarà dovuta alle 6 ore di apertura in enomatic o ai 41 anni di età del vino?
Ma in fondo non ha importanza, quale-che-sia-il-motivo-il-secondo, egli senza volere, ha fatto un gran complimento e io gli sono riconoscente. E fare la sfinge, con l'ossidazione volontaria e forzata di tutte le endorfine in circolo, ha dato i suoi frutti.
All'attivo quattro calici abbondanti che il cliente si è bevuto alla cieca lasciandosi consigliare in totale fiducia, felice e dimentico di quella ruggine, che altro non è che l'evoluzione ossidativa di quella componente sanguigna tanto evidente nei sangiovese della Rufina.
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