Capita di trascorrere qualche giorno in ospedale, cioè se
non capita è meglio, ma se ti ci trovi e non sei proprio moribondo che ti
nutrono a flebo certe osservazioni non puoi non farle. E quale può essere
l’unica cosa da osservare in un reparto dove tutte le infermiere sono donne e
non c’è uno straccio di dottore uomo manco a cercarlo col lumino che passa a
visitarti?
Il cibo.
Il cibo resta l’unica cosa su cui posare l’attenzione,
quella che mi fa passare 10 minuti concentrata su qualcosa, che non sia il
colore della parete della stanza o le lancette del manometro dell’ossigeno, o
peggio ancora le gocce della soluzione salina che gli propinano al mio
dirimpettaio. A volte le conto, paio un ebete.
E mi sono resa conto di quanto gli orari in ospedale
diventano importanti, di quanto cresce l’attesa di mezzogiorno o delle 6,
quando mi portano il vassoio col mio pasto. Se le infermiere tardano un po per
la qualunque ragione, inizio a innervosirmi, mi prende una sorta di ansia
biologica da nutrimento. E’ il basic instinct, ma per mangiare, che ogni altro
istinto si è bello che perso tra catarri, padelle e scorregge.
Nell'ordine: pollo e spinaci su scala di grigi;
hamburger di tacchino e patate quasi lesse; scaloppina ai funghi e puré
Al quinto giorno di ricovero posso stilare le prime tre
leggi della dietetica ospedaliera:
1. se ha un buon sapore non va bene. Perché tu ti sei
ammalato e questo è male. Non hai messo la sciarpa vedi? Ti sta bene. Becco e
mazziato, Già depressa per conto mio, dopo aver scoperchiato il piatto sono
pronta a impiccarmi col cavo del campanello o col tubo dell’areosol.
2. se ha un bel colore non è adatto. Tutto deve intonarsi
coi colori tenui e sfumati del reparto.
Ma pallido stinto non è un buon colore da ingoiare
3. se è masticabile è addirittura vietato. Questa legge
risale a quando l’ospedale era un paese per vecchi rincoglioniti, e quelli
dotati di protesi erano i più fortunati.
Per stimolare la masticazione in ospedale si può ricorrere
alle macchinette, poste fuori della porta di ogni reparto. Per i degenti sono
la luce, la chiamata che ti conduce nella notte buia verso il rumore di
pacchetti di crackers che cadono da molle poste a 1 metro di altezza e si
disintegrano, o di polveri sintetiche che scendono in un bicchiere di plastica
e odorano di caffè o cioccolata. Stanotte a cadere dal nastro è stata una
fiesta: ho scelto di investire il mio euro sulla cosa più tossica disponibile.
Tanto non mi ha visto nessuno.
Ma cerchiamo di essere precisi. I pasti di questi giorni
hanno visto sfilare pasta al pomodoro, puré, bietole saltate, piselli,
polpette, maiale al forno, patate lesse, mela cotta; tra le cose più semplici
da fare, al limite del banale, ma anche tra le più buone se vuoi che lo siano.(ecco
perché ho evitato di menzionare il pollo e l’hamburger di tacchino, sempre
presenti nella carta di un policlinico). Oppure possono essere la depressione
caspica. Va da se, la seconda.
Puoi sbagliare una patata lessa? Può essere cattivo un puré?
Dai anche quello in buste è goloso con un po’ di noce moscata e parmigiano. Per
farlo così brutto bisogna impegnarsi.
E vogliamo parlare dei piselli? Siamo tutti cresciuti coi
pisellini fini findus, cotti con l’acqua e l’olio e uno spicchio di aglio e ci
piacevano eccome. Si possono sbagliare i piselli fino a farli grigi?
Capisco che in ospedale non stai al ristorante, il cibo deve
essere leggero, poco salato e privo di grassi, ma non può essere la morte di
ogni sapore, di ogni colore umanamente deglutibile, di ogni consistenza
affrontabile per il palato.
Non può e non deve essere così.
Che al pensiero le fette biscottate col te della mattina
hanno il sapore di un jive dopo che per ore nessuno ti ha chiesto di ballare.
Oggi per pranzo, nemmeno mi avessero sentito, mi hanno
portato polenta pasticciata col sugo e scaloppina di maiale ai funghi. Magari sarò
costretta a ritrattare quanto detto o magari se nell’ora del passo non mi
trovate cercatemi alle macchinette.
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