lunedì 30 aprile 2012

REGALI

Se il tuo Lui al ritorno da un giretto alla Mostra dell’Artigianato ti dice: “ammoore ho preso una cosa per la cucina, ma non è da mangiare. Chiudi gli occhi”, la curiosità sale a mille.
Considerando  che la sua dimestichezza con il kitchenware sfiora gli zero gradi Kelvin, mi balenano per la mente i pensieri più improbabili. No il separa tuorlo/albume sicuramente no, sarebbe troppo anche per lui, il coltello per kiwi forse? La forbice forma polpette o gli egg moulds?
... dai sabri è stato alla mostra dell’artigianato, mica alla D-Mail!
“non aprire gli occhi eh!” e sento che rovista per ogni dove.
“amore dove hai messo l’aglio?”, mi chiede affannato
“aglio!?! Ma è più di mezzanotte..hai bevuto? Comunque non cercarlo nella credenza dei bicchieri, che di sicuro non lo trovi”. Nel frattempo l’ha trovato..
Ecco la sorpresa:


mr Garlic, lo sbuccia aglio. Rido, ma funziona. Metti lo spicchio nel tubetto di silicone lieve pressione con le dita per strofinarlo e l’aglio è sbucciato, e la mano non odora per le successive 6-8 ore.
I 15 kg si salsa alla carrettiera (donazione per la festa della parrocchia) ne hanno ampiamente dimostrato l’utilità.

giovedì 26 aprile 2012

INTERROGATIVI SULLA COLAZIONE

Leggo su Dissapore i vari identikit della colazione italiana: completi ed esaustivi. Io per esempio incarno il punto di colui che: frollino per tutta la vita. Ognuno di noi in fondo, si rispecchia in una di quelle tipologie. Ma il punto è un altro. Se la nostra colazione tipo è con cappuccino e brioches, è così da sempre.
A pensarci bene, noi, in quanto esseri umani, siamo incredibilmente curiosi e desiderosi di mangiare sempre diverso. Se a pranzo abbiamo mangiato la pizza raramente la sera avremo di nuovo voglia di pizza (vabbè ho preso come esempio proprio quell’alimento di cui mi ciberei a tutte le ore..). così come, se il giorno ci siamo cibati di carne, la sera per carità, meglio uno spaghetto! Insomma cerchiamo un’alimentazione “varia”, proprio non ci va di mangiare le stesse cose per due giorni consecutivi.
Se ci fate caso questa “regola” non vale per la colazione: al risveglio, il primo approccio della giornata col cibo è assolutamente abitudinario, quasi un rituale. Potremmo andare avanti tutta la vita a cibarci delle stesse cose: latte e biscotti, tè e fette biscottate, yogurt e cereali, con l’eccezione forse della settimana di vacanza in cui ci concediamo al lauto buffet dell’hotel...
Vi immaginate una vita fatta dello stesso menu tutti i giorni a pranzo o a cena? Forse qualcuno un po’ sfortunato è stato nutrito per anni con la braciolina all’olio al rientro dalla scuola, ma sono casi fortuiti.
Perché esiste una tale differenza di comportamento tra la colazione e gli altri pasti? Aiutatemi a dare risposta a questa domanda che turba i miei risvegli, ma mai quanto il non vedere 4 tarallucci impilati alle sette di mattina. Sempre quelli, i soliti da anni.

lunedì 23 aprile 2012

LA CUCINA MOLECOLARE A CASA: CON IL KIT SI PUO’

Cuisine Innovation e Cuisine R-Evolution sono i kit easy-to-use per chi vuole cimentarsi con la gastronomia molecolare nella propria cucina.
Nel momento in cui l’interesse verso queste tecniche pare subire una lieve flessione, vedi la chiusura di El Bulli o le dichiarazioni di  Heston Blumenthal, ecco che mi imbatto in questi kit. Si chiama tempismo, and I lack it.
Comunque sia, tardi o non tardi, li ho trovati, e mi hanno messo una curiosità addosso che non trattengo.
Cuisine Innovation, commercializzato da una ditta francese, è acquistabile on line per 34,80€ e Cuisine R-Evolution è commercializzato da una ditta canadese al valore di 58,95 $.
Il primo, più economico, è anche stranamente il più fornito, mentre il secondo presenta un DVD con 50 ricette a fronte di un semplice libretto con 6 ricette del concorrente francese. Entrambi i kit comprendono i più comuni additivi utilizzati per gelificare, sferificare, addensare e via discorrendo, più una serie di strumenti abbastanza banali come pipette graduate, siringhe, tubi in silicone e un cucchiaio forato. Davvero è tutto qui? Davvero per avvicinarsi alla cucina molecolare basta questo? 
Col mio passato di microbiologa ce la dovrei fare, anche se allora a cibarsi di ciò che sintetizzavo in lab non erano persone bensì microalghe, talora vongole (quelle del Delta del Po mica scherzi) e perfino le Pacific Oysters.
L’idea dunque è quella di ordinare i due kit e utilizzarli qui nella cucina del ristorante, insieme a qualcuno di voi interessato, che mi aiuti e che magari documenti l’esito dei nostri esperimenti con foto e quant’altro. Se siete interessati contattatemi e portatevi il grembiule. Ma soprattutto pensate a una ricetta, a quali ingredienti di questa potremmo applicare le tecniche sopra citate, insomma datevi da fare. Va da sé che ciò che cucineremo, nel caso in cui risulti potabile, sarà parte integrante della cena a seguire. Male che vada in dispensa c’ho sempre una forma di pecorino..

giovedì 19 aprile 2012

ECCOPINO’ 2012: IO C’ERO, ABBASTANZA

Lunedì 16 aprile, piove a dirotto e c’è pure la nebbia. Sono influenzata da venerdì scorso, naso sigillato al silicone, sopravvivo grazie alla traspirazione cutanea. Oggi è il giorno di Eccopinò: l’appuntamento organizzato dall’Associazione “Appennino Toscano-Vignaioli di Pinot Nero” per raccontare un progetto che coinvolge e unisce territori diversi quali Lunigiana, Garfagnana, Mugello e Casentino. Appuntamento a cui tengo molto: è il primo evento al quale sono stata invitata in qualità di blogger. La mia prima volta.. non posso mancare, non voglio mancare.
Abbondo col trucco per mascherare il pallore cadaverico e il naso paonazzo, faccio una terzina di  fumenta con eucalipto e salvia, per liberare il naso alla meno peggio e vado in direzione Borgo San Lorenzo. Otto produttori e nove pinot mi aspettano, viva o morta, o tenuta in vita da sorella Tachipirina.
La combinazione volontà+paracetamolo si rivela potente e il naso regge, anzi pare migliorare a forza di inalare gli effluvi del pinot Appenninico, che su di  me pare avere anche proprietà terapeutiche. Ringrazio sentitamente tutti i produttori presenti.
Nel pinottour che feci a terre di toscana, di cui ho parlato qui, mi ero ripromessa di assaggiare Macea con calma: gradevole questo pinot della Valle del Serchio, allevato in una vigna che dalla foto somiglia a una piramide Maya, dove l’accesso dei trattori è praticamente impossibile. Colore quasi purpureo, al naso rivela belle note vegetali quasi di erbe aromatiche che ben si sposano con frutti scuri, nel finale si fa largo la speziatura di pepe e note gessose.
È stato piacevole ritrovare Michele Lorenzetti, incontrato per la prima volta a Verona al convegno sul marchio Biometer. Il suo pinot, proviene da vigne giovani ed ha ancora da farsi come anch’egli ha giustamente ammesso. E allora cresci babypinot, l’aria a Gattaia è buona, fatti bello e cerca di assomigliare a i’ tu babbo..
Primo assaggio del pinot del Podere la Civettaja, Pratovecchio. Colore piuttosto cupo, così come la sua ritrosia al naso durata per un bel po’. Insomma nel bicchiere se l’è tirata per una bella mezz’oretta, poi si è lasciato addomesticare, scoprire in tutto il suo bel profumo variegato, un intreccio di frutta cotta e sentori vegetali per poi sconfinare in belle note mentolate. L’etichetta che raffigura una scultura tratta dai capitelli della pieve di Romena con l’omino dalle braccia rivolte al cielo, è tra le più belle e essenziali che abbia incontrato.
E poi lui, Il Rio, che resta comunque il mio preferito anche se nell’ordine di degustazione arriva dopo Fortuni, ovvero ultima fermata Beaune. Mi piace perché mi piacciono Manuela e Paolo e questo vino li rispecchia, nel frutto schietto, nella pulizia di bocca, in quella che io chiamo onestà di gusto, ovvero la capacità di un vino di mostrarsi per quello che è: in questo caso buono.



venerdì 13 aprile 2012

LA TAGLIA DEL RISTORATORE: XS O XL?

“Posso essere impertinente?”, mi chiede una signora di mezza età dai modi distinti e con un vago accento del nord, che siede insieme ad amici nella sala del ristorante.
“Si, se io posso risponderle a tono..”, le rispondo scherzosamente
“Concordo con gli altri che il cibo è ottimo, ma lei non è credibile..si insomma così magra non fa una gran pubblicità alla cucina”.
Lo prendo come un complimento..si sa basta dire a una donna che è magra per ingraziarsela, ma il punto è un altro. Una cameriera paffuta è indice della buona cucina?  Un cuoco abbondante dà più sicurezza di uno smilzo? Insomma, nel caso del ristoratore grasso è bello? Se così fosse, quella dei ristoratori sarebbe una delle poche categorie ad essere esente, assieme a quella dei lottatori di sumo, dallo stereotipo vigente che il magro è rock, e il rotondo invece non lo è.
Si perché parliamoci chiaro, oggi “grasso”, (lo cito tra virgolette perché non vorrei sconfinare nel tema dell’obesità, che in quanto una malattia esula dalle mie competenze e dall’essere trattata con toni così leggeri e ironici) è brutto, una persona bella in carne è malvista, e il problema non risiede solo nella non rispondenza a precisi canoni estetici di bellezza. Chi ha “la ciccia” non si sa controllare, e se è così sciatto e negligente a tavola lo sarà anche sul lavoro e via discorrendo..
Per il ristoratore forse la scusante sta nel fatto che la pancia o la cellulite sono come dire “malattie del lavoro”: per un cuoco che cucina, ovvero che sta in prima linea dietro ai fornelli almeno 12 ore al giorno, e che necessariamente assaggia in continuazione (io non credo a quelli che giudicano la perfezione di un piatto dal solo odore), ingrassare è quasi inevitabile. Ma lo fa per noi, per darci sempre pietanze perfette.. e noi lo perdoniamo e lo amiamo anche grasso isnt’it?
I cuochi stellati fanno razza a sé, bellissimi e senza un etto di grasso, hanno doppia fortuna: il genio creativo e pure il metabolismo illuminato. Fanc..
Lavoro in un ristorante, cucino e manipolo il cibo da mattina a sera. Ogni minuto sono sottoposta alla tentazione di ingerire qualcosa e mi punisco almeno la metà delle volte, imponendomi di resistere. Sono in perenne lotta con l’acquolina in bocca, mi ficco tra i denti un pezzo di pane se sto sbavando per un raviolo gonfio e grondante di sugo o uno spicchio di mela se sto per cedere a un cucchiaio di mousse al cioccolato. Quando devo assaggiare uso palette di plastica per dosi microscopiche e quando l’assaggio supera qualche grammo sputo. Sono “magra” ok, ma a costi inenarrabili.
Per favore se mi confermate che per i ristoratori c’è l’esenzione da “grasso è brutto”, smetterò di autoflagellarmi e potrò essere paffuta senza vergogna.


mercoledì 11 aprile 2012

“BASTA CONSIDERARE I CAMERIERI COME DEI PERDENTI” (AA Gill)

Prendo spunto da un articolo di A.A. Gill apparso un po’ di tempo fa sul Sunday Times (http://www.timesonline.co.uk/), che ho trovato terribilmente vero e con un Gill più acuto che mai.
Traendo ispirazione dall’iniziativa di una catena di ristoranti inglese, di dimezzare l’importo della voce servizio sul conto, Mr Gill analizza numerosi aspetti del mestiere di cameriere. Un paio di questi mi hanno particolarmente toccato, visto che li sperimento periodicamente sulla mia pelle.
Primo fra questi è che il cameriere è considerato il mestiere dei perdenti, di coloro che non sanno fare altro. Così come nel Regno Unito to be a waiter means to be a looser, in Italia il cameriere è quel mestiere ultimo, infimo, per cui non è richiesta né arte né parte, quel mestiere che pure uno scemo saprebbe fare e perciò a questa categoria relegato. A questo proposito mi viene in mente un episodio che mi è capitato qualche anno fa. Al tavolo sono seduti alcuni clienti che vengono al ristorante da un po’. Particolarmente soddisfatti da alcune pietanze, elogiano il cuoco e mi chiedono se quei piatti sono firmati da Aldo (mio padre, the boss). Timidamente rispondo che li ho pensati e realizzati io, al che, sbigottiti esclamano: “e noi che ti credevamo la “stalentata” della famiglia, perciò relegata in sala”. Eccolo lì il pensiero distorto, il cameriere è lo scemo del gruppo, colui che per definizione è incapace di fare un qualunque altro mestiere degno di tale nome..
Vi prego correggetemi, ditemi che sto sbagliando, che preso una cantonata clamorosa..vi pregoooo!!!
Gill giustamente osserva che negli States la cosa è completamente diversa, non ci sono pregiudizi di sorta nei confronti del personale di servizio. Anzi, il cameriere è sempre un mestiere “composto”: waiter-actor, waiter-singer, waiter-entrepreneur..insomma il cameriere è un mestiere che fanno tutti, di cui essere orgogliosi, una sorta di gavetta per la strada del successo..saranno famosi insegna!!
L’altro aspetto, è che, udite udite, il cameriere serve in tavola, ma non è un servo.
E c’era bisogno di dirlo? Si, eccome.
Non so cosa scatti nella mente di alcune persone nel momento in cui si siedono nella sala di un ristorante, ma di certo succede qualcosa che li fa sentire autorizzati a rivolgersi al personale di sala con cenni vari quasi da mimi. Addirittura c’è chi sfodera un linguaggio presistorico del tipo: “ehi”, “oh oh”, quando invece basterebbe un “mi scusi?” per richiamare l’attenzione del cameriere.
Chi porta il grembiule implicitamente deve occuparsi della prole lasciata scorrazzare allo stato brado tra i tavoli e le stoviglie, rivolgersi a persone che neanche ti ascoltano quando prendi le comande e che ti rispondono dandoti del TU (-no mi dia pure del lei, non mi offendo –mi verrebbe da rispondergli). Altri  invece si ostinano imperterriti a stare seduti sbracati rendendo l’operazione di pulizia del tavolo una sorta di gioco acrobatico non esente da urti, gomitate e varie ed eventuali.
Mi ritengo fortunata, visto che per ora nessuno mi ha chiesto di fare l’inchino..
Abbiamo anche noi la nostra versione maccheronica di cameriere come mestiere composto solo che suona così: cameriere-babysitter, cameriere-schiavetto, cameriere-acrobatamanonartista..
Lo so, avete ragione, non tutti i clienti per fortuna sono così, come è vero che non tutti gli autisti dell’ataf sono scortesi, non tutti i politici corrotti, non tutti gli arbitri becchi, ma a volte ne basta uno per rovinarti la giornata.


venerdì 6 aprile 2012

L'OVINO KINDER

Ho appena finito di fare la spesa al supermercato, ed è una cosa che odio. La faccio sempre in  fretta, lista in mano per non perdere tempo. Oggi ho dimenticato la tessera, quindi niente salvatempo e fila alla cassa. La cassiera molto gentile, prima di chiudere il conto mi informa che con un euro di spesa in più posso prendere un ulteriore bollino. Onestamente io i bollini li perdo sempre, ma mi sembra proprio scortese risponderle di no.
“Se vuole le aggiungo un cioccolatino e così raggiunge la cifra”
“si si va bene” le rispondo.
Afferra un ovetto kinder (alias Kinder Sorpresa) e me lo infila nella busta.
“Così farà felice il suo bambino” aggiunge.
Non sto a spiegarle che non ho figli, potrebbe rafforzare la tesi che i ristoratori odiano i bambini, perciò l’ovetto con sorpresa al massimo farà felice la sottoscritta, forse..
Credo di poter affermare con una certa sicurezza che non mangio l’ovino da diversi anni (qualche decina senza esagerare), ma ora sta lì nella busta, mi chiama.
Mentre guido ne azzanno subito un pezzetto, figurati se posso aspettare di essere a casa..
Nessun ricordo, neanche lontano, di cioccolata, solo una dose massiccia di zucchero, mescolato a qualcosa che somiglia vagamente al burro, che mi invade la bocca, me la impasta. Più che impastata direi che la mucosa orale è “impantanata”, prosciugata, come neanche un bicchiere di alcol puro può fare. “La sorpresa, un gioco e del cioccolato!!” recitava la pubblicità  in TV: ora capisco perché la parola cioccolata compare in terza e ultima posizione.
La scena ha un che di surreale, io che mastico affannosamente l’ovino mentre ascolto la voce dolce e potente della soprano Montserrat Caballé,  che accompagna Mercury in La Japonaise. Non posso fare a meno di pensare che se fossi un soprano, nello stipulare un’assicurazione per la voce, includerei nella polizza: danni da ovetto kinder..
Accelero verso casa, ho un impellente bisogno di bere, acqua, sia chiaro. E poi mi aspetta la sorpresa.. la mia sorpresa si chiama “SPRINTY”, una macchinina da corsa rossa con tanto di adesivi da applicare. Uffa, come se non bastasse il sapore dell’ovino, ho pure beccato il regalo da maschio.

mercoledì 4 aprile 2012

LA TORTA PASQUALINA

Questa torta della tradizione ligure un tempo veniva preparata in occasione della Pasqua, e realizzata con ben 33 strati di sfoglia molto sottili, tanti quanti gli anni di Cristo.
Tra gli ingredienti della versione originale, compare la prescinseua, ovvero una cagliata fresca leggermente acidula, adagiata sopra un composto di uova, verdure e mollica di pane, e nella quale sono praticate delle fessure atte a contenere le uova sgusciate. In genere fuori delle zone di origine la cagliata è sostituita con della ricotta.
Vai con la ricetta, compresa la pasta, per i più audaci. Queste dosi sono sufficienti per realizzare 6/7 strati di pasta, compreso il cappello; tirarne 33 è un lavoro immane..ho lasciato perdere.
Per i furbetti: si può sostituire la pasta tirata a mano con un uguale numero di fogli di pasta fillo, unti con olio e sovrapposti..non male il risultato.
Potete prepararla il giorno prima e servirla in occasione del pranzo di Pasqua come augurio prima di dare inizio alle danze..

Ingredienti
Per la pasta:
500 g di farina 0
20 g olio extravergine di oliva
280 g acqua
sale
Per il ripieno:
600 g di erbette (spinaci e bietole)
300 g di ricotta vaccina
40 g di mollica di pane
40 g di parmigiano
qualche rametto di maggiorana
latte
2+3 uova
sale e pepe

Per la pasta, mescolate gli ingredienti, quindi impastate energicamente per 8-10 minuti fino ad ottenere una pasta molto liscia. Copritela con della pellicola e lasciatela riposare per circa un’ora.
Nel frattempo preparate la farcia. Lavate accuratamente le erbette, scolatele e appassitele in padella con un filo di olio e l’acqua rimasta dal lavaggio. Aggiungete un pizzico di sale e cuocete a fiamma vivace per circa 7-8 minuti. Fate raffreddare, quindi tritatele grossolanamente.
Ammorbidite la mollica di pane con un po’ di latte, quindi aggiungete due uova, il parmigiano grattugiato, le foglie di maggiorana, le erbette e la ricotta. Regolate di sale e pepe.
Tirate la pasta prima con il matterello, poi con le mani, fino ad ottenere dei fogli molto sottili, quasi trasparenti. Adagiateli nella tortiera ben imburrata e sovrapponeteli spennellandoli con olio.
Versate il composto sugli strati di pasta, praticate tre fessure (delle buchette) e sgusciatevi le uova. Completate con una manciata di parmigiano, quindi coprite con altri 6/7 (o quanti ve ne vengono..) strati di pasta. Infornate per circa 50 minuti ora a 190°C; la crosta esterna deve risultare dorata. (nella versione originale la cagliata non è mescolata al composto di verdure, ma si fanno due strati separati: erbette sotto, prescinseua sopra; le uova sono inserite in delle fessure all’interno della cagliata; si completa col parmigiano).

Si fa così perché:
-         la pasta: in questo caso è davvero importante che sia lavorata a lungo, in quanto deve risultare molto elastica per poterla tirare fine come un velo. La pasta è molto simile a quella dello strudel, per cui valgono le considerazioni fatte per quella ricetta..andatela a vedere!!
-         io ho utilizzato ricotta vaccina e non di pecora in quanto è più morbida e mi permette di avere un impasto più “leggero”, meno compatto e asciutto rispetto all’utilizzo dell’altra ricotta.
-      il tempo di cottura deve essere un buon compromesso tra la doratura della crosta  e la cottra delle uova intere all'interno della farcia: cotte si ma senza l'alone verde.. mi raccomando!